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LA DONNA NELLA LETTERATURA, E IL FEMMINICIDIO NELLA NARRAZIONE

  • Immagine del redattore: Vincenzo Marrocchini
    Vincenzo Marrocchini
  • 30 mag
  • Tempo di lettura: 3 min

La letteratura, da sempre specchio della società, ha raccontato la donna in tutte le sue forme: musa ispiratrice, madre, amante, ribelle, vittima. Attraverso i secoli, le parole scritte hanno costruito e decostruito stereotipi, hanno soffocato voci ma anche dato spazio a nuove coscienze. Oggi, in un tempo in cui il femminicidio è una tragica realtà quotidiana, vale la pena interrogarsi su come la narrativa abbia rappresentato – e rappresenti – la donna e la violenza di genere.

Per secoli, le donne sono state oggetto della narrazione maschile. Pensiamo a Penelope, simbolo di fedeltà passiva, o a Beatrice, innalzata su un piedistallo ideale ma priva di voce. Nella letteratura classica e medievale, la donna spesso compare come simbolo, metafora, funzione narrativa.

Ma con il tempo, qualcosa cambia. Con l’avvento dell’Ottocento e le prime autrici pubblicate – Mary Shelley, George Sand, Jane Austen – la donna comincia a scrivere, e a scrivere di sé. Si affaccia una prospettiva nuova: quella della soggettività femminile, del desiderio, della rabbia, della frustrazione.

Non è raro trovare, nella letteratura, la morte della donna come evento narrativo centrale. A volte è un espediente drammatico – come in molte tragedie shakespeariane, da Ofelia a Desdemona – altre volte una condanna sociale implicita: la donna che osa trasgredire viene punita. Pensiamo a Emma Bovary o a Anna Karenina, personaggi femminili complessi, che pagano con la vita il loro desiderio di libertà.

Ma quando la morte della donna è opera dell’uomo, e l’omicidio si inserisce in un contesto di potere, controllo, possesso, la letteratura anticipa (o riflette) quello che oggi definiamo femminicidio.

Il termine "femminicidio" è relativamente recente, ma la sua rappresentazione in letteratura è antica. È il marito che uccide per "onore", è l’amante che elimina per "gelosia", è il padre che punisce per "vergogna". La letteratura non ha solo raccontato questi crimini: a volte li ha giustificati, altre volte li ha denunciati.

Ne "La casa di Bernarda Alba" di Federico García Lorca, il destino di oppressione e violenza sulle donne si respira in ogni parola. In "Una donna" di Sibilla Aleramo, è la stessa autrice a raccontare la propria fuga da un matrimonio violento. Nei romanzi di Elsa Morante, Dacia Maraini, Elena Ferrante, la violenza maschile non è mai giustificata, ma messa a nudo con crudezza.

Oggi, molti romanzi e opere teatrali affrontano esplicitamente il tema del femminicidio, come "Ferite a morte" di Serena Dandini, che dà voce a donne uccise da mariti, ex compagni, padri. Un grido collettivo che rompe il silenzio e restituisce dignità.

Parlare di femminicidio nella letteratura non è solo analisi del passato: è anche un atto politico. Perché ciò che la letteratura racconta, entra nella coscienza collettiva. Le parole sono strumenti di potere: possono normalizzare la violenza, ma anche combatterla. Possono perpetuare il mito della donna "provocatrice", o possono smontarlo.

Oggi, la sfida è creare storie che restituiscano complessità, voce, verità alle donne. Che non si limitino a raccontare la violenza, ma che la denuncino. Che la inseriscano in un contesto sociale, storico, culturale, e che non ne facciano mai spettacolo.

La letteratura ha il potere di educare, sensibilizzare, trasformare. Parlare di donne, di dolore, di morte, ma anche di lotta, di consapevolezza, di rinascita, è necessario. Perché ogni storia è un frammento di realtà, e perché nel raccontare, possiamo – forse – cominciare a cambiare.

In un mondo dove il femminicidio è ancora una ferita aperta, la letteratura può e deve essere una forma di resistenza. Una voce per chi non può più parlare.

 
 
 

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